Manrico Marinozzi

Tra il classico e il moderno

Alvaro Valentini

La vicenda artistica di Manrico Marinozzi si è sviluppata lungo l’arco del Novecento, dagli anni Venti agli anni Settanta, sulle tracce di un percorso creativo che rappresenta uno spaccato incisivo della storia più o meno recente del nostro Paese e della sapiente manualità e dell’ingegno intuitivo operanti all’interno di una rinomata bottega artigiana, quella dei Marinozzi, che ha saputo portare al più alto livello i valori insiti nei settori specifici del restauro e dell’antiquariato, attività riscoperte agli inizi del secolo scorso.

Erano allora tempi di trapasso e rapide mutazioni. La civiltà della macchina spingeva al rinnovamento, l’avvento del Futurismo sovvertiva l’ordine classico privilegiando la velocità, il dinamismo, il volo spaziale. E nel segno della novità e dell’avanguardia era un susseguirsi frenetico di manifestazioni che Marinetti pilotava ovunque con spirito dissacratorio e rivoluzionario. Nel 1922 Pannaggi firmava con Paladini il "Manifesto dell’arte meccanica futurista", dieci anni dopo nasceva a Macerata il "Gruppo Boccioni".

L'artista nel suo studio di Pollenza nel 1971

Erano anche i tempi del "richiamo all’ordine", del Realismo magico, dei Valori plastici, del recupero di una purezza espressiva individuata nella tradizione classica e rinascimentale.

L’espressionismo visionario di Scipione, carico di umori romantici e disperati, segnava con la "Scuola di via Cavour", fondata a Roma assieme all’amico Mafai e Antonietta Raphael, uno spartiacque nei confronti della cultura imperante.

In questo periodo storico, ricco di fermenti culturali e movimenti, muove i suoi passi Manrico Marinozzi, sostenuto da una naturale vocazione e da una tensione artistica che si rivelerà inesausta nel dialogo con i grandi maestri del passato, nell’apertura costante verso forme moderne e innovative, nella presa di coscienza che si può fare vera arte svelando il proprio sentire e la segreta ricchezza della poesia.

A ben riflettere, il suo iter, straordinamente fecondo per quantità e qualità, denota non solo il febbrile lavoro di artigiano puro, di cultore del bello e di testimone del tempo, ma anche il sentimento di uno spirito lirico e romantico, che al di fuori degli schemi precostituiti ritrova una originalità di linguaggio che segno dopo segno, colore dopo colore, vibra e palpita di sensazioni intime e recondite armonie.

Non per nulla, adolescente, avrebbe voluto studiare violino e questa sua passione gli rimarrà fortemente impressa nell’animo, al punto che una velata modulazione musicale con i suoi silenziosi ritmi e le sue pacate trascrizioni viene a pronunciarsi in tutta la sua opera con viva spontaneità ed estrema freschezza, assecondando un impulso creativo che si realizza nell’euritmia formale, cromatica, luministica di ogni dipinto e nella leggiadria plastica di ogni scultura.

L’origine, l’etnìa, il senso radicato del pudore e della riservatezza, gli stretti legami con la bottega antiquaria avviata dal padre Remo, se da un lato hanno frenato i suoi entusiasmi giovanili, le sue aspirazioni, dall’altro hanno stimolato il suo estro, affinato le sue virtù.

Un esempio di scene bibliche
dipinte da Manrico Marinozzi:
"Sara accoglie i tre messaggeri".
Tempera, cm 65 x 40

Costretto a rapportarsi con la dura realtà di tutti i giorni (in bottega si lavorava dalle prime luci dell’alba al tramonto) costruisce dentro di sé spazi ideali d’evasione e ri-creazione. Sente prorompente il bisogno di emulare l’arte del passato, di riscoprire i maestri che dal Cinquecento in poi hanno segnato una civiltà, il Rinascimento, che ha plasmato il divenire della condizione culturale, sociale ed umana nel mondo.

Egli guardava con interesse ai Fiamminghi, ai Veneziani, al Canaletto, il Ricci, il Guardi, il Pannini, Hubert Robert, Corot, il Porpora, Salvator Rosa e lo Zuccarelli, un corollario spumeggiante di modelli e valori estetici che rivivono nei suoi paesaggi di gusto classico e romantico, permeati come sono da lirica naturalezza e sereno incanto. Ecco allora marine tremolanti con vascelli leggendari, ruscelli canterini tra montagne rocciose, alberi indeggianti tra folta vegetazione, dame e cavalieri in riva al lago, pastori e musici in estatica attesa, ampie vedute e ruderi millenari, tutte immagini di una figurazione spaziale e scenografica dove l’idillio prende corpo e dischiude spazi consolanti di poetica sublimazione.

Quello di Marinozzi è un paesaggio tanto suggestivo quanto irreale, una sorta di viaggio nella fantasia e nell’immaginario dove si ritrova il candore di luoghi lontani, lo stupore di una natura incontaminata, quasi un ritrovato Eden. Una poetica di paesaggio che l’artista elabora fin dagli anni Trenta e che in verità prefigura la linea del Postmoderno, poi definita "Nuovo Romanticismo", e alla quale si ricollegano per alcune chiare assonanze autori come il maceratese Ubaldo Bartolini, un tempo frequentatore dello studio Marinozzi.

"L’immagine di paesaggio — annota Italo Mussa ("La Pittura colta", Roma, 1982) — non è un "genere" a sé ma appartiene al linguaggio inattuale dell’arte. Astrazione e figurazione sono i due poli della metafisica del quotidiano; improvvisamente i loro confini hanno spalancato orizzonti sconosciuti", dove gli elementi compositivi — aggiungiamo noi — rispondono e risuonano di motivazioni interiori e di struggente nostalgia per una realtà epocale che diventa memoria, recupero mitico, pensiero rivelatore di un verbo pittorico di chiara ascendenza classica.

E a questo genere di naturalismo, tutto armonia e fascino, l’artista affida gran parte della sua produzione, inseguendo la luminosità calda del Lorrain, il virtuosismo cromatico del Caravaggio, le atmosfere crepuscolari del Rembrandt, la limpida visione di verità del Corot, nel rispetto d’una ispirazione intima che ingloba il concetto ideale e simbolico di un paesaggio dove l’uomo ritrova la ragione del suo essere e del suo destino.

"Caraffa e limoni", olio su tela, cm 50 x 75.

La medesima tensione ispirativa, sempre sostenuta e filtrata dalla chiarezza razionale, si ritrova nelle nature morte: melagrane in cesti intrecciati, pesche vellutate, grappoli d’uva d’un rosso rubino, limoni succosi e appetibili, cocomeri spaccati e purpurei, bottiglie e calici trasparenti, selvaggina ancora pulsante, una varietà di temi che il pittore affronta e raffigura in modo così realistico da apparire vivi, corposi, tangibili.

La descrizione minuziosa, l’attenzione ai dettagli, ai particolari, ai riflessi viene dall’artista rappresentata non come elemento di secondo piano, ma come soggetto interamente compiuto e in sé risolto, tanta è la fine "manifattura". Il disegno è nitido, preciso, lineare, la gamma cromatica distribuita armonicamente negli accordi tonali che fanno lievitare l’aspetto espressivo e quasi surreale della composizione.

Marinozzi opera in assoluta libertà e autonomia, coglie, elabora e reinventa la visione oggettiva, anche se alcune "traduzioni" pittoriche appaiono talmente perfette sotto il profilo meramente compositivo e stilistico che sembra di respirare l’atmosfera stessa dei dipinti originali. Esiti e contrappunti pittorici derivano anche dalla scrupolosa cura con cui l’autore sceglie e prepara le sue tele, i telai, le cornici che spesso risalgono all’epoca stessa del quadro preso a modello.

"I miei dipinti — affermava Manrico — non sono copie, non sono riproduzioni di capolavori. Da un maestro del ‘600 prendo un motivo e lo rielaboro secondo il mio stile e la mia ispirazione".

Una verità inconfutabile perseguita in ogni momento con quel rigore morale che lo aveva plasmato nascendo. È racchiuso forse qui il seguo tangibile della grandezza dell’uomo che per la sua alta tensione artistica e spirituale merita di essere recuperato alla cultura contemporanea.

Manrico Marinozzi ha condotto la sua esistenza in silenzio e solitudine, rinunciando alle grandi platee e agli incarichi prestigiosi presso Accademie, Scuole d’arte, famose botteghe antiquarie, in Italia e all’estero. Giovanissimo si era subito imposto. Negli anni Venti egli esponeva con i migliori artisti del momento, come Michele Cascella, Anselmo Bucci, Rodolfo Ceccaroni, Luigi Bartolini, Francesco Carnevali, Cesare Peruzzi. Mieteva premi ovunque, a Firenze, Ascoli Piceno, Pesaro e Bari. La critica lo apprezzava, i suoi dipinti e le sue sculture andavano a ruba.

Era già un artista affermato, ma il tirocinio era stato lungo e faticoso: restauro di tele e mobili antichi, intagli e intarsi, decorazioni e affreschi nei palazzi gentilizi a Roma. Nei momenti liberi visitava musei e gallerie, pronto a cogliere un segno, una luce, un colore, a rubare con gli occhi le opere dei maestri del passato, il Piranesi, il Magnasco, il romantico Corot e quant’altri sentiva congeniali con il suo modo di essere e di pensare.

I primi tentativi pittorici risalgono all’adolescenza, quando capitatigli tra le mani due fiori di un maestro del Seicento li "eternò" su una vecchia tela con stile e fantasia. Da qui la scelta di dedicarsi completamente all’arte. Ma, ripercorrendo le tappe del suo cammino, si scopre come Marinozzi abbia iniziato la sua attività artistica da scultore. Non ancora ventenne, egli modella, plasma, scolpisce, usa di sgorbia e di scalpelli. Tratta con abilità ogni materia, il legno, la creta, il marmo, il bronzo (che intensità espressiva in "Aurelio lo spazzino"), produce sculture a tutto tondo, bassorilievi e medaglioni ricordo, raffinate testine di bimbo in terracotta o terra cruda, tra cui "Pierino, il nipote Mario, Lo sbadiglio", in cui l’artista profonde tutta la sua sensibilità e il suo ludico virtuosismo. Realizza per la facciata monumentale della chiesa di S.Antonio in Pollenza le due statue in cemento, dipinte in color bronzo, che adornano i tabernacoli laterali: "Dante Alighieri" e "Cristoforo Colombo". L’artista coglie da par suo lo spirito lirico e pensante del sommo poeta e l’espressione volitiva del grande navigatore ligure.

"Madonna con il Bambino"
Bassorilievo in legno, diametro cm 65.

Di trascendente intensità poi la "Vergine con il Bambino", modellata in noce. I lineamenti delicati del volto, i capelli fluenti, gli occhi socchiusi e il tenero abbraccio danno all’insieme il senso pieno dell’amore e della donazione. Permeata da pathos e spiritualità, la "Madonna di Loreto" eseguita per il Duomo di Acireale. Suggestive le altre sculture (fiori, volti, figure) scolpite soprattutto in legno, una materia calda, duttile, pronta ad assecondare il suo estro creativo.

E sull’esempio degli scultori ellenici, Marinozzi insegue in ogni suo lavoro l’idea della bellezza pura e dell’armonia con effetti di leggiadria plastica e lirica sospensione. Un sentimento questo connaturato in lui e che uniforma la straordinaria serie dei suoi dipinti, sia si tratti del paesaggismo classico e romantico, sia di una pittura libera e ariosa, svincolata cioè da ogni regola rigida e tesa a calarsi in grembo alla natura, a cogliere il variare delle stagioni, a fermare il divenire della luce, a impaginare mondi pensati e mai posseduti, a dare smalto e definizione alle sensazioni dell’anima.

È il Marinozzi che non ti aspetti, umano, sensibile, fantasioso, che esalta la nobiltà del gesto pittorico e la qualità della ricerca estetica. Vengono via via alla ribalta angoli pittoreschi, l’interno della bottega, il cavalletto con il camice smesso, i pennelli di mastro scopa (come ironicamente si definiva), le terre (i suoi colori) custodite in involucri accartocciati, lo studio di Fabio Failla, il ripostiglio dei gerani, un universo pittorico fatto di cose semplici e minute, di oggetti e frammenti del quotidiano che Manrico dipinge nei giorni di festa e di riposo, quando può dare sfogo alla sua inventiva e al suo intimo sentire.

In questo contesto nascono dipinti di nuova concezione, come "Notturno sul mare", "Costiera amalfitana", il "Cipresso solitario" o "Le panchine", dove la luce con il suo omogeneo diffondersi sostiene l’assetto formale e cromatico trasfigurando la visione in uno spettacolo di fulgida epifania. Immerse tra gli alberi e il verde del giardino, le due panchine diventano simboli e metafore di vita, raccontano lontani incontri, amori annunciati, le memorie stesse dell’umanità.

L’artista non finisce di stupire e con la fantasia che gli è propria realizza misteriosi paesaggi lunari, caverne di un giallo amplificante, montagne di un rosso apocalittico, immagini sognate e impaginate molti anni prima che il cosmonauta americano Armstrong nel luglio del 1969 scendesse a passeggiare sulla superficie del pallido astro in ciel cantato dal Poeta dell’Infinito.

Seguono i quadri dedicati alle "paranze" dell’Adriatico, ai lumi accesi di una luce incantata, alle conchiglie parlanti, ai granchi appena pescati, alle fantasie surreali degli orologi o dei Re Magi volanti, alle composizioni suggellate nei toni tersi di luce e colore, dove l’artista giocando su piani sovrapposti opera una sorta di congiunzione pittorica ideale (vedi, "Frutta e fiori") tra la visione classicistica del reale e l’esigenza di un respiro più rispondente ai segreti moti dell’animo.

Tra i dipinti più innovativi si rivela "L’attesa del chierichetto": qui l’artista mostra la sua abilità nel ricreare l’atmosfera di silente abbandono sulla poltrona del bambino, che appare tutto raccolto nelle pieghe della tonaca e della cotta dove spicca un fiocco rosso svolazzante. Il viso stanco, gli occhi fissi nel vuoto, la mano ripiegata sul mento vengono ad accentuare l’atmosfera d’attesa e di smarrimento, resa ancor evidente dal contrasto tra il primo piano e lo sfondo indefinito e impalpabile.

"Sorriso di bimba"
Matita, cm 21 x 21.

Marinozzi è un sensibile e attento osservatore della natura umana e questa sua inclinazione si manifesta nella serie delle figure e dei ritratti, interpretati con tecnica e incisiva introspezione psicologica, come per captare in profondità il carattere peculiare, i tratti somatici e il sentimento di ogni singolo personaggio.

"Il garzone del ramaio", "Fanciulla con brocca", "Il fratello Remo", "La figlia Giuliana", ecc, costituiscono modelli esemplificativi di una sapiente maestria educata all’ombra del laboratorio artigiano, che tanto ci ricorda le antiche botteghe fiorentine, dove l’arte si sublima in un cantico di beltà e d’armonia.

Egli si dimostra tanto abile nelle tempere e negli affreschi, quanto negli acquerelli e nei disegni. Che semplicità di linee, che nitore di segni in quei graziosi quadretti familiari: "Maria allatta", "La piccola Adua", "Sorriso di bimba", "Autorittatto" del 1930. E come palpitano di freschezza e luce accorpata gli acquerelli.

Quel che sorprende in lui è la spontaneità, la rapidità di esecuzione, l’impareggiabile scioltezza nel fissare una sintesi alta tra pensiero-gesto-azione, ovvero tra manualità e invenzione.

Ma quali slanci inusuali talvolta riserva, a conferma di una varietà di linguaggio che non trova riscontri tra i contemporanei. È il caso del "rembrandiano" "Autoritratto", dove l’artista si effigia con insolito cipiglio, la fronte corrucciata, lo sguardo deciso, balenante di una luce inquieta. Ne deriva un’atmosfera di angoscioso tormento che in verità contrasta con la purezza serafica del suo animo, sempre teso a cogliere la dolcezza di uno sguardo o di un sorriso, l’infinitudine dell’essere, le meraviglie del creato.

Lo confermano i tanti quadri dedicati alle scene bibliche (che luminosità in "Mosè salvato dalle acque"), alle immagini di fede (splendide le tavole dell’Annunciazione, "Maria e l’Angelo", dipinte su fondo oro, così antichizzate da far pensare ad un maestro del ‘500), i suggestivi paesaggi, le nature morte, e in particolare i fiori, veri capolavori di grazia e di raffinatezza. Fiori freschi e profumati, che vivono nel loro autonomo splendore e continuano a parlarci della loro intima essenza e del loro profondo significato: un amore che nasce, un altro che muore, un pensiero, un rimpianto, un addio. Anemoni, gelsomini, mimose, margherite, mughetti, rose, fiori di ogni qualità e specie che l’autore incastona con infinito trasporto e inconfondile stile, ora in sontuosi drappi o composizioni auliche, ora a sé stanti o in semplici vasi di terracotta o di rame sbalzato. Fiori di ieri e di oggi, fiori sempre incantevoli che scandiscono l’appassionato possesso della vita.

A cento anni dalla nascita e a trenta dalla scomparsa, Manrico Mannozzi rivive in tutta la sua dimensione umana, morale e artistica. Il suo racconto estetico, così alto e compìto nel ritorno a passato, così incisivo e concreto nel dispiegarsi al vissuto, ci offre una partitura incomparabile di immagini, sospese in perfetto equilibrio tra il classicismo e la contemporaneità, tra la chiarezza razionale e l’emozione lirica. Oggi più che mai, egli ci appare come uno spirito sensibile e romantico, un cantore del bello e dell’armonia, un figlio legittimo di quella cultura, classica e moderna insieme, che sulle tracce del tempo ritrova l’impulso dell’ispirazione.


E-mail: gesunuovo@yahoo.it

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